Amaro, dolce, macchiato, allungato.
Quel profumo tostato che si diffonde per casa quando il sole è ancora pigro e dalla finestra entra giusto quel poco di luce che ti serve per vedere.
Il caffè.
In realtà, per chi mi conosce, sa che non sono un fan di questa bevanda. Non la bevo in pratica mai..
Ma sono sempre stato attratto dal caffè.
Non nella bevanda in sé quanto nell’arte della sua preparazione e in quello che suscita nelle persone.
Un rito.
Un rito quotidiano.
E i riti mi hanno sempre affascinato. Penso che siano un tramite importante per tramandare una determinata cultura. E un po’ mi fa ridere se penso che il signor Pinco Pallino verrà ricordato dai posteri per il suo decantato modo di prepararsi il caffè la mattina.
In fondo ci sono tanti modi per passare alla Storia, perché non può essere questo uno di quelli?
Io faccio il fotografo con l’ambizione dello scrittore e vi domanderete cosa posso mai capirne di caffè, a maggior ragione non bevendolo mai.
In effetti non ne capisco nulla ma adoro immaginare un perfetto sconosciuto prepararlo al mattino presto, ciondolando dal sonno davanti la macchinetta in attesa che l’acqua bolli e che quella energetica bevanda gli dia la carica necessaria per iniziare la sua giornata, qualsiasi essa sia.
Ma vi sto deviando, in realtà. Questo non sarà un articolo sul caffè.
Non sarà neanche un articolo sul signor Pinco Pallo e sulla sua mirabile vita immaginaria alla Walter Mitty.
Il caffè è un preteso.
Un pretesto per scavare nei miei ricordi. Uno in particolare.
Premessa.
Ero un giovanissimo adolescente. Ero entrato da poco in quella fase in cui volevo sentirmi a tutti i costi più grande di quello che in realtà ero. E una delle prime cose che fa un ragazzino è imitare gli adulti.
Osservavo mio padre preparare il caffè la mattina e portarlo a mia madre nel letto.
Da persona curiosa domandavo come si facesse e cercavo di capirne il principio.
Non tardò il momento in cui mi cimentai anche nell’ardua prova di preparazione.
Non mentirò, ne ho fatti di casini e i primi risultati ti mandavano in bestia e ti contorcevano lo stomaco.
Ma ero curioso, sempre, e così affinai la mia tecnica e iniziai anche a far provare quella brodaglia calda.
Ed è qui che nasce il ricordo suddetto.
(Sì, a volte sono davvero inutilmente prolisso e riesco a parlare per ore del nulla)
Tornando a noi.
Ero ancora un giovane adolescente. Era un pomeriggio uggioso ed ero andato a trovare la mia adorata nonna.
Le volevo bene, molto. E a modo mio penso di averglielo dimostrato. Spero.
Comunque, mia madre mi chiese di fare il caffè. Ero emozionato e inorgoglito per aver ricevuto questo importantissimo compito, così mi misi ai fornelli manco se fossi un concorrente di masterchef.
Impiastro un po’ tutto ma alla fine era pronto, fumante nelle tazze.
Lo portai in salotto e lo servii.
Ed eccolo il ricordo. Gli occhi azzurri di mia nonna mi sorrisero e mi disse, “bravo è proprio buono.”
Avrei voluto fotografare quel momento, ma non avevo ancora scoperto la mia passione. Non ero ancora il fotografo che sono oggi. Lo scrittore del quotidiano che ambisco ancora a diventare.
Non saprò mai se lo disse per farmi felice o se lo pensasse davvero. Ma resto romantico e penso che quegli occhi non abbiano mai potuto mentire.
E così, ogni tanto, quando sento la sua mancanza preparo un caffè.
Capita soprattutto quando mi alzo la mattina presto, quando non ha ancora albeggiato. Quando il passato è ancora vivo e i miei fantasmi non si sono ancora dileguati con la luce del sole.
Non lo bevo, resto fedele a me stesso. Ma rimango qualche minuto a osservare la tazza fumante e lasciare che il suo odore amaro pervada le mie narici.
Poi mi giro e la trovo là, la guardo che mi sorride con quegli occhioni azzurri e mi ringrazia.
Questa volta scatto una fotografia per non lasciarla andare.
Alla fine arriva l’alba, il passato si dilegua e lascia spazio a un nuovo giorno tutto da raccontare.